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L'INDIMENTICABILE ICONA DI UN MEDICO RIBELLE


Il «Che» è vivo. E anche i critici che hanno retto la maratona del doppio film di Steven Soderbergh (quattro ore e mezza) grazie al vezzoso cestino offerto nell'intervallo dalla produzione. Un record che conquista un posto d'onore nell'album dei ricordi festivalieri, ma non si specchia, purtroppo, in un omologo evento cinematografico. I punti a favore dell'ambiziosa saga non mancherebbero: Benicio Del Toro, che ne è anche produttore, è veramente impressionante per come s'incarna con accuratezza mimetica nell'ex dottore argentino, ma anche gli attori alle prese con personaggi come Fidel (Demiàn Bichir), Raul (Rodrigo Santoro) o Cienfuegos (Santiago Cabrera) onorano il ruolo senza ricorrere a patetiche pantomime; la scelta di girare entrambe le parti in spagnolo indica la serietà e la devozione con le quali il regista americano s'è dedicato all'impresa; le ambientazioni (Spagna, Portorico e Messico) sono perfettamente ricalcate su quelle originali di Cuba e Bolivia. Manca, però, il guizzo stilistico decisivo, un'idea-faro di messinscena, una specifica suspense che riscatti la prevedibilità di vicende universalmente note ed incessantemente tramandate e indagate; come manca la giustificazione artistica e spettacolare della rinuncia ad affrontare passaggi decisivi e significativi della parabola guevariana (la fondazione dello stato socialista, l'attività da ministro dell'industria, il rapporto con l'Urss di Breznev; per non parlare dei risvolti privati, relegati a scialbi quadretti con Aleida e prole). Una sensazione di spreco, in qualche modo accresciuta dalla diversa qualità dei capitoli: il primo «Che» - cadenzato sulla ricostruzione in bianco e nero e montaggio alternato della storica visita all'Onu nel '64 in qualità di eroe e ambasciatore della Rivoluzione - è di una piattezza disarmante, incapace di rievocare la trionfale avanzata dei barbudos e il crollo della corrotta dittatura del generale Batista al di là di qualche banale scaramuccia e qualche banale squillo agiografico; mentre il secondo - bruscamente trasportato nel vivo della tragica e conclusiva spedizione nella giungla boliviana - diventa un po' meno «orizzontale», scioglie nodi meno risaputi e, illustrando battaglie meno coreografiche, abbozza un identikit più sfumato e mosso del protagonista in cui l'ossessiva missione si è trasformata in stile di vita (e di morte). Non si tratta solo del fatto che al cinema i perdenti sono più interessanti, oltre che più simpatici, dei vincenti, ma anche della poco fruttuosa caccia a una chiave drammaturgica in precedenza del tutto trascurata o dispersa. È nel contempo evidente quanto siano superflue le polemiche inerenti al giudizio politico che si può dare sul regime ancora in sella a Cuba. Se Soderbergh ha tutto il diritto di esserne affascinato, ciò che rende il kolossal un'opera generosa ma inutile è la mancanza di un «contatto» profondo con il carisma del Comandante: quel grumo magmatico e misterioso, fuori della sua portata didascalica e illustrativa, che impasta l'obiettiva purezza degli ideali, l'obiettiva e spesso sanguinaria caducità del disegno guerrigliero e l'obiettiva forza della società «imperialista» che ha risucchiato il mito e ne ha fatto un'icona pubblicitaria.
Da Il Mattino, 23 maggio 2008 [Valerio Caprara fonte Mymovies]

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