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Chi segna vince: quando la sconfitta insegna a vincere

La squadra di calcio delle Samoa americane divenne celebre per una clamorosa sconfitta: aver incassato, nel 2001, ben trentuno goal contro l'Australia, nell'incontro che si tenne a Coffs Harbour; un risultato oltre il tennistico, tanto da diventare un riconoscimento da Guinness dei primati. Ovvio è che un risultato simile annichilisca squadra, allenatore e società. Infatti, per una decina d'anni la squadra delle Samoa subì un vero e proprio blocco evolutivo e fu così che decisero di ingaggiare un allenatore olandese: il mr. Thomas Rongen [persona sui generis col "vizio della bottiglia" e con un temperamento irascibile sfociante in noti scatti d'ira]; l'obiettivo del coach Rongen doveva essere di far segnare almeno un goal alle Samoa, che era già un traguardo ancora più arduo, che vincere di netto una partita. Taika Waititi, premio Oscar per Jojo Rabbit (2019) dirige Chi segna vince  (2023) un film nostalgico sulla terra che gli ha dato i natali, attraverso
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Ferrari. La recensione

Non c'è bisogno di essere dei cinefili per accorgersi che Ferrari [2023] non sembra un film girato da Michael Mann, ma è firmato dal maestro Michael Mann. Sì, proprio lui, il regista di Heat - La sfida, di Collateral, dell'epico L'Ultimo dei Mohicani. Se è un film riuscito? No, anche se non mancano momenti di una certa suspense, specie nelle scene delle gare automobilistiche, nelle quali si riescono a percepire quelle inquadrature annesse all'abitacolo da lato cofano, dallo specchietto laterale o da lato bagagliaio, che tanto ricordano gli indrappelli della Ferrari Daytona Spyder 365 GTS/4 in Miami Vice - La serie, guidata da Sonny Crockett (Don Johnson). Non si può tantomeno definirlo un biopic, poiché non racconta l'intera vita di Enzo Ferrari (un Adam Driver rattrappito sia nei movimenti, sia nella recitazione), ma s'incentra nell'anno 1957. Si dice che raccontare la vita privata degli idoli sia deleterio, perché renderebbe l'idolo un semplice mortal

Napoleon, la recensione

È stata un'impresa difficile per il maestro Ridley Scott trattare di una personalità storica così significativa e contraddittoria come l'imperatore e comandante francese Napoleone Bonaparte. Ridley Scott è uno dei capisaldi internazionali della regia: tecnica visiva singolare, con una versatilità registica capace di passare dal genere fantascienza al genere storico come una pallina di tennistavolo. E anche chi di cinema non sa nulla, almeno una volta nella vita, avrà visto un film del maestro Scott, perché film come Il Gladiatore, Blade Runner, Thelma & Louise, The Martian hanno raggiunto lo status di culto. Napoleon (2023) è un biopic tanto spettacolare quanto imperfetto e racconta di un arco temporale di trent'anni del milite francese; Scott apre con l'assedio di Tolone nel 1793 e chiude con l'esilio sull'Isola di Sant'Elena. Allo spettatore va detto che è un film, ossia una trasposizione "artefatta" di eventi storicamente accadu

Io Capitano: Seydou e l’Odissea di milioni di anime

Io Capitano [2023] di Matteo Garrone è un film che sceglie il percorso inverso, non nel senso del tragitto, bensì nel senso della perdizione. L’Africa è stata ed è terra d’avventura, di safari, di caccia, di tribalismo, ma soprattutto di grandi migrazioni e di colonialismi latenti. Matteo Garrone prende come approdo l’Europa, topos mitico per gli africani, tracciandone il viaggio/segmento di un adolescente senegalese e di suo cugino, da Dakar a Tripoli e dal porto libico all’Italia. L’esperienza del viaggio di Seydou (Seydou Sarr) è lo stesso rodaggio afoso di milioni di uomini, donne e bambini, che migrano per la speranza di un futuro. Io Capitano è un’epopea emotivamente coinvolgente per lo spettatore; il protagonista porta il nome di chi lo interpreta, il neofita Seydou Sarr, che qui ci offre una prova attoriale estremamente matura. Il ragazzo deciderà d’intrapredere il viaggio, all’insaputa della madre, col cugino Moussa (Moustapha Fall) dalla coloratissima Dakar, in Africa occide

Oppenheimer: quando distruzione e resurrezione coincidono

È superfluo usare l’appellativo “bello” per definire il nuovo film di Cristopher Nolan, sarebbe più appropriato “sorprendente”. J. Robert Oppenheimer, conosciuto ai più come “il padre della bomba atomica”, racchiuse in sé un gigantesco scrupolo di coscienza, che qui è raccontato in tre ore tormentate. Benché Oppenheimer (2023) ripercorra la vita turbolenta del fisico americano, che ha contribuito prima allo studio astratto e dopo alla ricerca e sviluppo empirico della bomba atomica, resta, comunque, un dramma sulla coscienza di un genio che concepisce la sua creatura e che la porta alla conoscenza collettiva, divenendo “errore cosmico”: condannando uomini, donne e bambini a quelle sventure che furono Nagasaki e Hiroshima. La sceneggiatura è basata su “American Prometheus”, libro biografico scritto da Kai Bird e Martin J. Sherwin nel 2005. Oppenheimer divenne chief del “Progetto Manhattan” dal ‘42 al ‘46; egli si fece costruire un laboratorio nel deserto di Los Alamos, nel Nuovo Messic

Indiana Jones e Il Quadrante del Destino: ognuno ha il tempo che si merita

Non nascondo una sorta di commozione nell’aver visto il volto ringiovanito di Harrison Ford grazie alle innovative tecniche di De-Aging (un processo di utilizzo della CGI per far apparire una persona molto più giovane degli anni che ha); non perché questo Indiana Jones e Il Quadrante del Destino  (2023) riservi soltanto questa novità, ma perché veder correre, oggi, Harrison “Indiana” Ford, classe ‘42, sul tetto di una carrozza di un treno nazista nel ‘39, mi ha, nostalgicamente, riportato al primo Indiana Jones del 1981 I Predatori dell’Arca Perduta . In questo ultimo capitolo dell’archeologo-avventuriero più famoso del mondo, concepito dalla geniale coppia di menti Spielberg & Lucas, qui diretto dal cartesiano James Mangold ( Quel Treno per Yuma , Le Mans ‘66 – La Grande Sfida ), si riscopre tutto il chimerico di quest’eroe: le atmosfere esotiche, il Marocco, l’Italia, l’Europa minacciata dal nazismo, l’occulto, il mistero, il viaggio, la storia e l’archeologia, i climax scanditi

Ted Lasso – La serie TV con le palle

Quando ho sentito parlare per la prima volta della serie TV Ted Lasso (senza leggere alcunché), già dal titolo e dalla locandina, mi sembrava del genere commedia demenziale tipo quelle dei fratelli Farrelly. Fortunatamente, mi sono sbagliato! Intanto perché Ted Lasso è un antieroe, ma non in senso negativo; il personaggio interpretato da Jason Sudeikis, che sfodera un baffo da far invidia anche a Thomas Magnum, è un uomo educato, nerd quanto basta, ignorante in materia di calcio europeo, perché egli proviene dal mondo del football americano e ha un background motivazionale e una fragilità sorprendenti. Infatti, di puntata in puntata, vediamo evolvere le tecniche di comunicazione di questo allenatore di calcio che cerca di cambiare prima le persone e poi tutta la squadra. Ecco spiegate le sconfitte plurime del Richmond, la formazione da lui allenata assieme al suo collaboratore Coach Beard (un iconico Brendan Hunt). Beard è un personaggio che sembra cucito più per una pellicola di Wes