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L'UOMO NERO: Rubini tra passato, piaceri e dispiaceri


Torna a dirigere in Puglia dopo il bel La Terra, una pellicola che ha i sentori del cinema di Fellini e quelli visivamente forti dei colori e della fotografia di Tornatore.
L'uomo nero nell'immaginario bambinesco è la paura. Quante volte le nostre mamme, quando ci allontanavamo troppo ci dicevano: -non andare lì che c'è l'uomo nero-. L'ombra del mistero, di quello che non sai, di ciò che non si vede. Dopo il flop-pop di Colpo d'occhio, che voleva essere una dichiarazione esplicita all'arte della pittura, mescolando lontani prototipi del thriller hitchcockiano; Rubini qui, invece, ritorna ad omaggiare, questa volta, con la pittura colorata e paesaggistica di Cézanne. La gran parte del film è incentrata sulla filosofia artistica di Paul Cézanne.
Storia di una famiglia, che inizia a presentarsi con la faccia scarna e delineata di Fabrizio Gifuni(Gabriele nel film).
Gabriele torna nel suo paese nativo in Puglia per stare vicino a papà Ernesto che sta per morire.
Il ricordo di Gabriele lo riporta agli anni '60 quando bambino camminava scalzo per le stradine del centro storico del suo paese. Una scenografia di tutto rispetto, che bene rende l'idea di quegli anni. Le viuzze del centro storico di Mesagne, la piazza di San Vito dei Normanni, sono emblematiche e danno al ricordo una valenza ancora più onirica e pittoresca, come nei dipinti di Cézanne. Questo film è anche un dichiarazione a favore della famiglia, che di fronte ai dispiaceri non si sfalda, anzi, si coalizza per poterli affrontare. È un analisi dei problemi del sud tuttora esistenti e cioé quello delle mancate opportunità o delle opportunità non valorizzate.
Un tema attuale che descrive ancora la Puglia di oggi.
Lo zio-zitello(Riccardo Scamarcio) che insegnava al piccolo Gabriele l'arte della seduzione, preparandolo alla sessualità.
L'aspetto però forte della pellicola è il sogno; tutti noi abbiamo dei sogni che vorremmo si realizzassero e facciamo di tutto, diamo l'anima, ma c'è sempre qualcuno o alcuni che ci ostacolano. Ancora una volta il sud diventa terra di ricordi infantili e onirici, dove i colori della natura si incrociano con i sogni delle persone, ma dove è impossibile lavorare o emergere in quello che veramente piace fare. Questo è il messaggio che lancia il regista che ci offre bellissime scene di piazze e chiese, contornate dalla musica di Nicola Piovani; però forse trascura dei dettagli nella trama o comunque non la specifica bene, portandola presto verso una svolta banale e già preannunciata molti minuti prima della fine.
Tutto sommato un lavoro maturo che non ha superato i suoi film migliori come La Stazione e L'Anima Gemella, ma comunque degno di rispetto, perché vede in questo attore regista l'amore per le cose vere e la passione per la propria terra natale.
Le interpretazioni sono eccelenti, da uno Scamarcio credibilissimo, poiché del tutto naturale e un Rubini troppo sopra le righe, ma molto bravo. Valeria Golino, invece, poco convincente per via di una mancata sensibilizzazione e fuorviante immedesimazione della mamma del sud. Il film deve essere visto perché è l'aforisma della vita di chi è nato in queste terre poco valorizzate e cerca di riscattarsi nel sud stesso ma non ci riesce. Ecco il significato del personaggio Gabriele: cioé colui che rimane deluso dalle aspettative di un padre, a sua volta, affranto e schiacciato dalla cattiva penna della borghesia del sud.

Commenti

  1. SONO D'ACCORDO CON LA TUA ANALISI E CRITICA DEL FILM MA, CREDO CHE NEL FILM SI DEVE COGLIERE UN'ALTRA COSA IMPORTANTE; è VERO CHE QUI AL SUD LE PERSONE COLTIVANO I PROPRI SOGNI E SPESSO NON RIESCONO A PORTARLI A COMPIMENTO MA, RUBINI CI FA CAPIRE CHE NELLE PERSONE DEL SUD NON MANCA L'ORGOGLIO, LA VOGLIA DI FARE E L'UMILTA'

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