Nel cinema è bello vedere quando un protagonista passa dalla vita ordinaria all'incubo più inatteso. Juan Oliver è un giovane che ha progetti per il futuro, sta per avere un bambino dalla sua bellissima moglie, e vuole trovare un lavoro, un posto fisso, che al giorno d'oggi è, praticamente, impossibile. Forse un mestiere che pochi vorrebbero fare: il secondino.
Primo giorno di lavoro. Alcune guardie carcerarie gli fanno vedere la prigione, gli illustrano come deve muoversi all'interno di un penitenziario, ovvero, un colosso di cemento armato, dove domina il grigio, il rumore delle inferriate delle celle arrugginite e la puzza dell'umido. Un carcere in disuso, dove gli intonaci stanno crollando e che richiede molta manutenzione. Tant'è che nel momento in cui alcuni colleghi di Juan gli spiegano le modalità da attuare per restare in rapporto con i detenuti, un grosso pezzo d'intonaco cade sulla testa del povero Juan, che inizia a sanguinare vistosamente, perdendo i sensi. Le guardie lo mettono per un istante nella cella 211, ma contemporaneamente nell'altro braccio del penitenziario, MALAMADRE interpretato da Luis Tosar, che abbiamo già visto in Miami Vice di Mann, dove impersonava il boss dei boss del narcotraffico, Montoya, organizza una rivolta. Juan si risveglia, ma ormai è troppo tardi, perciò è costretto a camuffarsi detenuto, facendolo con grande maestria e coraggio.
La pelliccola di Daniel Monzòn richiama il genere denuncia sociale, ma anche il prison movie. C'è molto Prison Break della prima stagione, per quanto riguarda le scene d'azione, o le cospirazioni tra galeotti, tipiche del thriller carcerario. C'è un uso della camera a mano, con dei primi piani sui visi sporchi, molto simile a Gomorra di Garrone. Molti primi piani da dettaglio, come la scena del taglio di un orecchio ad un carcerato.
L'aspetto che intrattiene il pubblico sicuramente, è questa amicizia "tarantiniana" che sboccerà tra Juan e il boss MALAMADRE.
Il protagonista vero in questa opera originale e direi interessante, è il sangue. Qui diventa l'ornamento necessario per raccontare la violenza, l'unico mezzo di cui questa gente si serve per far valere le loro ragioni; basti notare la canotta perennemente insanguinata del giovane Juan. Concludendo, un prodotto di denuncia sociale, che mette in mostra quanto il carcere sia duro, ma anche quanto questa gente rea di aver sbagliato, subisce all'interno di quel lurido posto, non una terapia per recuperarsi, ma altra violenza da parte di secondini, pronti a picchiare, diventando come loro. Una discreta opera d'arte che merita considerazione e rispetto.
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