Per
fare un cocktail, oppure, un minestrone non si può pensare di metterci di tutto
e di più, altrimenti, si arriva ad alterarne il sapore. Se nella gastronomia,
quindi, si rispettano delle regole, lo stesso vale per il cinema. In Cloud Atlas si chiede un impegno non da
poco allo spettatore. E di spettatori ce ne sono di due tipi: quelli che vanno
a vedere il film per passare il tempo e quelli che vanno a vederlo per farne
poi una discussione (sono i più rari). Per quest’ultimi potrebbe essere
gradito; per i primi, invece, assolutamente sconsigliato. Tre ore quasi, di
storie concatenate in maniera magistrale. Il montaggio somiglia tanto a quello
di Babel di Iñárritu; i fratelli
Wachowski sono abili a giocare con “le ere”: presente, passato, futuro e futuro
distopico. Giocano con i temi che hanno disegnato lo scenario storico
dell’umanità: la libertà, il sacrificio, l’amore, il senso di colpa e il
potere; li estendono, soprattutto, nel futuro e li analizzano filosoficamente
nell’investitura della vita, della morte e della resurrezione. Il pensiero di
Nietzsche è ridondante, con l’eterno
ritorno dell’uguale, il ripetersi degli eventi che anticipano e
condizionano gli scenari futuri. Si cambia continuamente genere in Cloud Atlas:
dal mélo al noir, dal thriller alla fantascienza. La regia si avvale anche
dell’aiuto del tedesco Tom Tykwer [Profumo].
Forse, questo continuo cambiamento di generi nello stesso film, richiama un
altro tema: la metamorfosi. Sfortunatamente, però, il progetto è fin troppo
ambizioso, finendo per sofisticarne i bellissimi temi trattati.
Fedele al romanzo di David Mitchell, il film lascia lo spettatore attonito ed anche un po’ annoiato, non tanto per la lunga durata della pellicola, quanto per la sua impostazione pessimistica ed a tratti proustiana. “Est modus in rebus” disse Quinto Orazio Flacco. Il rischio d’indigestione filmica è dietro l’angolo.
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