Ha
fatto discutere tanto questo “Django” di Tarantino, forse perché dentro al film
c’è tanta materia che scotta. Chi ha visto i film precedenti di Tarantino, sa
quanto è importante il “citazionismo”, ma come ogni cosa, si sa che bisogna
usarla con la dovuta cautela. E siccome il regista di Pulp Fiction e Kill Bill
abbonda in citazioni, l’ha fatto anche stavolta. Essere un artista significa
citare, stravolgendo le regole e l’ordine naturale delle cose. L’arte raggiunge
il suo compimento, quando si supera.
La storia narra le vicende di Django (Jamie Foxx), schiavo di colore, che viene “adottato” da un cacciatore di taglie, King Schultz (Christoph Waltz) per fare squadra e ammazzare taglie importanti. Solo che Django vuole trovare la sua amata Bromilda, che a sua volta è schiava presso la tenuta di un negriero del Mississippi, Calvin Candy (Leonardo Di Caprio). Poi, ci sono tanti altri personaggi figli del b-movie e del cinema americano degli anni ’70 e ’80. Se è un western? No, è un film di Tarantino e in sé ha tanti generi. Il riciclaggio degli stili e delle citazioni, con musiche di Bacalov, Micalizzi, addirittura con il soul e il rap; tutto ciò che basta per farne un film originale, ma imperfetto, analizzando con cinismo il delicato tema della schiavitù. I temi storici si possono raccontare con lo stile classico, come farà Spielberg in Lincoln, ma anche alla Tarantino che come un professore di matematica parte dalla “dimostrazione per assurdo” per raccontarci la verità.
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