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Il Grande Gatsby

Alcuni ritengono che le belle storie facciano i film, altri che siano i grandi attori a farli. Baz Luhrmann ha preso sia una grande storia, tratta dall’omonimo romanzo di F. Scott Fitzgerald, e anche degli attori di tutto rispetto: Leonardo Di Caprio (Gatsby), Tobey Maguire (Nick Carrawey) e Carey Mulligan (Daisy). Un film pieno di malia, poiché sprigiona luce e colore, specie se visto in 3D. Un po’ come le feste di Gatsby nelle quali dominano fiumi di cocktails, ospiti stravaganti, balli iperbolici e sbornie carnevalesche; tutto negli anni ’20, precisamente nel decennio che precede la crisi del ’29. Proprio gli anni del proibizionismo, 1922, a New York. La meta delle grandi opportunità, della fusione delle culture, della musica jazz, ma nonostante ciò, la grandezza dello scrittore fa si che si viva il disagio/presagio che comincia a trasparire: New york è spaccata in due: i ricchi e i poveri. I primi fanno feste e i secondi lavorano. Da una parte l’upper class dell’alta borghesia e dall’altra la classe operaia povera, la quale vive ai margini della società. Il cruccio dello spettatore pagante che non ha letto il libro, è quello di sapere chi sia in realtà Gatsby e come sia riuscito a diventare quello che è. La pellicola visivamente si mostra iperrealista. Luhrmann usa l’iperrealismo per raccontare gli anni ’20 e il sogno americano, in cui i veri protagonisti sono i costumi coloratissimi e le musiche pop (dei giorni nostri) curate da Jay-Z. Tale connubio vintage-moderno potrebbe infastidire, ma bisogna ammettere che vedendo le baldorie degli ’20 con un sottofondo quasi da harlem shake, non disturba, anzi piace.
La storia del misterioso Gatsby è raccontata dal coprotagonista Nick Carrawey (alias lo scrittore), il quale narra di scrivere un libro proprio sulle vicende dell’affascinante quanto inquieto Gatsby. Una storia d’amore nella quale domina il timore dell’abbandono e della solitudine: la solitudine del grande uomo.

di Baz Luhrmann, con Leonardo Di Caprio, Tobey Maguire, Carey Mulligan

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