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La Grande Bellezza


L’opera di Paolo Sorrentino inizia con una citazione, tratta da Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline, la quale recita: «il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco, la sua forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato …». La Grande Bellezza è piuttosto “una sorta di Dolce Vita”; per ammissione stessa del regista infatti questo è un film e la Dolce Vita un capolavoro. Dalla sua modestia traspare la verità sulla natura di questo film. Un esperimento proustiano sull’epilogo drammatico della vita che si ripercorre faticosamente tra noia e mondanità (dissacrazione del grottesco, proprio come dirà Jep Gambardella alias Toni Servillo: «volevo avere il potere di farle fallire …» riferendosi alle feste della Roma godereccia).
I primi cinquanta minuti della pellicola sono un capolavoro visivo, in realtà tutto il film per come è girato, è una grazia per gli occhi, ma nella seconda parte sembra che la narrazione finisca e compaia l’antinarrazione sostituita dalla totale libertà visiva del regista il quale preferisce dare spazio al trastullo visivo più che al racconto. In fondo perché biasimarlo? Già è difficile raccontare la vita, la quotidianità, figuriamoci il senso della vita. Quindi Sorrentino sceglie il tema più difficile da raccontare, cadendo nella noia, forse volutamente, e uscendone quanto mai pessimista, perché si sa che il bello è raro e il brutto è all’ordine del giorno. Comunque raccontare de La Grande Bellezza, con gli occhi di uno scrittore pigro e disincantato, rara, anzi rarissima, come il più bel ricordo che una persona possa rimembrare nell’arco della sua esistenza senza senso, non è da tutti, certo qualche taglio in più avrebbe giovato.

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