Non si sa bene ma credo ci sia una forza nel
Natale, una forza che sprigiona un'atmosfera quasi fatata. I focolari accesi,
cuori dei camini fumanti, danno caldo e compagnia alla famiglia e anche a chi
una famiglia non ce l’ha. C'è il vecchietto che vagabondo s'aggira per le
stradine del centro storico, intento a incontrare un amico con il quale
scambiare due chiacchiere. L'atmosfera natalizia, per certi versi, ha una
"nascosta tranquillità" se pensiamo al daffare che ogni persona si
porta sulle spalle: preparativi, regali, cadeau,
svariate sfumature di shopping, insomma ogni cosa possa compiacere l'altro a
ricevere qualcosa in forma di dono. Non voglio teorizzare il Natale, renderlo
retorico, infantile, oppure banale, ma ritengo che dietro a questo momento si
apra un atteggiamento di solidarietà involontario, dettato dalle regole
dell'empatia. Il calore del dialetto come colloquio, come codice per
comunicare. Diceva Pirandello: "La
parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il
sentimento, invece la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto".
Poi … le luci che diventano protagoniste nella notte e colorano le grandi porte
della città: Porta Nuova, Porta Grande e Porta Piccola. Quest'ultima anche se
non c'è, è come se ci fosse. L'invisibile che diventa visibile; immaginato e
(ri)creato. Anche la fugacità delle intere giornate può portare a qualcosa: un
incontro con una persona che non si vedeva da tempo; un regalo inaspettato da
una persona che si era dimenticata. Un po' come le sonorità improvvisate di Blue Christmas di Wynton Marsalis. La
città si definisce, diventa "l'altra cui donare": Misciàgni.
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