Eppur son passati quindici anni. Avevamo dimenticato gli italiani tra le titaniche produzioni hollywoodiane. Tra “La vita è bella” di Roberto Benigni e “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino sono passati quindici anni. Va ricordato di nuovo, perché in questo intervallo di tempo ci siamo noi. Noi con le nostre vite; con le nostre tendenze; con i nostri vizi capitali. Un trionfo che è tutto di Paolo Sorrentino. Una vittoria personale del regista-uomo, del suo talento. Il concetto di ─ tempo ─ nel film di Sorrentino è predominante. Come fu per “C’era una volta in America” di Leone, ne riprende gli elementi proustiani i quali sono incentrati sul tema del ─ ricordo ─ come unica fonte di bellezza. Da La Vita è bella a oggi, con La grande bellezza, possiamo solo apprezzarne i dettagli di fondo del nostro Paese. Perché l’Italia è ed è stata protagonista di un processo di decadentismo, il quale Paolo Sorrentino ha raccontato con magistrale grandezza. La grande bellezza resterà fra le opere importanti del cinema italiano. Nonostante questa pellicola sia priva di trama, è comunque ricca d’immagini forti ed espressive, che rimangono impresse solo dopo aver visto il film. Un film che è apprezzato nel lungo periodo, quando il soffitto di una stanza diventa mare, quando l’effimero di un Paese è in una festa sotto le note di “A far l’amore comincia tu” della Carrà feat Bob Sinclar. Un’opera d’arte sul carattere di questo Paese, che si porta a casa un oscar e conferisce quel valore artistico che l’Italia conserva ancora. [Di seguito la recensione]
L’opera di Paolo Sorrentino inizia con una citazione, tratta da Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline, la quale recita: «il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco, la sua forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato …».La Grande Bellezza è piuttosto “una sorta di Dolce Vita”; per ammissione stessa del regista infatti questo è un film e la Dolce Vita un capolavoro. Dalla sua modestia traspare la verità sulla natura di questo film. Un esperimento proustiano sull’epilogo drammatico della vita che si ripercorre faticosamente tra noia e mondanità (dissacrazione del grottesco, proprio come dirà Jep Gambardella alias Toni Servillo: «volevo avere il potere di farle fallire …» riferendosi alle feste della Roma godereccia).
I primi cinquanta minuti della pellicola sono un capolavoro visivo, in realtà tutto il film per come è girato, è una grazia per gli occhi, ma nella seconda parte sembra che la narrazione finisca e compaia l’antinarrazione sostituita dalla totale libertà visiva del regista il quale preferisce dare spazio al trastullo visivo più che al racconto. In fondo perché biasimarlo? Già è difficile raccontare la vita, la quotidianità, figuriamoci il senso della vita. Quindi Sorrentino sceglie il tema più difficile da raccontare, cadendo nella noia, forse volutamente, e uscendone quanto mai pessimista, perché si sa che il bello è raro e il brutto è all’ordine del giorno. Comunque raccontare de La Grande Bellezza, con gli occhi di uno scrittore pigro e disincantato, rara, anzi rarissima, come il più bel ricordo che una persona possa rimembrare nell’arco della sua esistenza senza senso, non è da tutti, certo qualche taglio in più avrebbe giovato.
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