Raccontare storie non è semplice, specie quando si tratta di “fatti” che riguardano, ormai a meno di mezzo secolo di distanza, la storia del giornalismo americano dei primi anni ’70.
Sappiamo quanto sia ovvio porre l’accento sulla bravura di Steven Spielberg e la magistrale padronanza che egli ha del mezzo cinematografico.
Perché in The Post, Spielberg è abile nel fornire allo spettatore, anche a quello poco informato o meno istruito, dettagli sufficienti per spiegare e collegare gli eventi storico-politici di quegli anni.
The Post, con la sua narrazione classica, apre al Caso Watergate, focalizzandosi sugli eventi che l’hanno preceduto: i Pentagon Papers, o meglio, le bozze trafugate dagli archivi segreti del Dipartimento della Difesa, che metteranno in discussione la presidenza Nixon e riveleranno le storture delle precedenti presidenze.
La dose di realismo e veridicità di questa pellicola (valga lo stesso per Il Ponte delle Spie e Munich), come anche l’approccio degli interpreti, è stupefacente.
La sceneggiatura di Liz Hannah e Josh Singer è simmetrica: comincia tutto col Vietnam, già dalla scena d’apertura, e da un veterano, il quale porterà alla luce 4000 pagine di “scartoffie” che cambieranno per sempre la storia degli Stati Uniti d’America e del giornalismo investigativo.
Prenderà il via una staffetta tra il New York Times (che per primo si addosserà l’affare Pentagon) e il Washington Post che lo ripresenterà, generando tenzóne; ma è grazie alla caparbietà della sua editrice Kay Graham (Meryl Streep) e a una squadra di valenti giornalisti, coordinati da Ben Bradley (Tom Hanks), che sarà svelato al popolo americano il contenuto dei Pentagon Papers.
Meryl Streep/Graham ricopre un ruolo in ascesa; dapprima si pone timida e insicura, poiché costretta a ricoprire una posizione solitamente maschile per quei tempi, fino a rivelarsi in tutta la sua grandezza di donna. Tom Hanks/Bradley invece è tarato per fare la parte del giornalista pungente.
Il film di Spielberg è la metafora della “responsabilità”.
Pubblicare significa assumersi responsabilità, soggettive e oggettive. Un tema quanto mai attuale, in un’era di fake news a gogò, che ci deve far riflettere sull’etica del giornalismo. «La stampa serve chi è governato, non chi governa» recita profeticamente una frase del film.
The Post sarà ricordato per la sua eleganza; per i movimenti di macchina e i piano-sequenza che ricordano Orson Welles e sono meraviglia per gli occhi di chi guarda.
The Post ci lascia: il ticchettio delle macchine da scrivere, le ingombranti cornette telefoniche, le televisioni a tubo catodico, il rumore del nastro di stampa, il fruscio dei fogli di carta, le sigarette mai spente e il profumo dell’inchiostro di un giornalismo d’altri tempi.
Tra verità e potere solo un uomo può metterci l’occhio: Steven Spielberg.
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