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The Irishman e l'esistenzialismo secondo Scorsese

E' scontato dire "questo film me lo devo proprio vedere", perché compaiono nel cast nomi come Al Pacino, Robert De Niro, Joe Pesci... in una parola: il cinema.
Se poi, questo film, è diretto da Martin Scorsese, beh, è cinema d'autore.
Una cosa è certa, il Maestro ci mette alla prova, concedendosi una libertà di metraggio paurosa: tre ore e ventinove minuti.
Frank "The Irishman" Sheeran (Robert De Niro) fa la gavetta come autotrasportatore. Le vicissitudini della vita portano Sheeran a conoscere poi Russell Bufalino (Joe Pesci), il quale, da uomo d'onore, lo avvierà al ruolo di sicario.
D'altronde uno come Frankie, che aveva imparato ad uccidere, in Italia, da recluta nel secondo conflitto mondiale, lo sapeva fare anche come civile.
Il soggetto è basato sul libro "I Heard you Paint Houses" di Charles Brandt, che racconta le peripezie criminali dell'irlandese realmente esistito e della sua implicazione (o meno) con la scomparsa di Jimmy Hoffa.
La sceneggiatura di Steven Zaillian (Schindler's List, Mission Impossible) è strutturata come un collage di ricordi: tutto il film è un "amarcord scorsesiano" di un assassino. La prima parte con l'affiliazione al clan di quelli di Philadelphia grazie a Bufalino e al "boss gentile" Angelo Bruno (Harvey Keitel) si presenta con le belle, quanto macabre, didascalie di ogni personaggio che entra in scena, con la data di nascita e di morte (e annessa tipologia di decesso), perché quelle sono state persone reali. La seconda parte, in pieni anni '50, vede primeggiare un monumentale Al Pacino che fa il sindacalista Jimmy Hoffa, il quale instaurerà una lunga amicizia con Frankie.
Sullo sfondo si muovono gli eventi storico-politici: l'elezione di Kennedy, la Baia dei Porci, l'assassinio di Kennedy Presidente, l'incarcerazione di Hoffa e la sua riabilitazione con il tentativo di ricompattare il Sindacato fino a "l'ultima cena" di Detroit nell'estate del 1975, a cui seguirà la scomparsa dello stesso Hoffa.
Scorsese insieme a Zaillian ci ricordano come si fa un film di mafia. Se in Quei Bravi Ragazzi il mondo mafioso era aggettivato col pulp e col macchiettistico, qui c'è invece una falsa pacatezza e una lentezza brutale che delineano quel mondo lì.
The Irishman è un'opera sul ricordo, una manovra proustiana, come fu per Sergio Leone in C'era una volta in America. E' un trattato sulla senilità. Il messaggio che lancia Scorsese è chiaro: ognuno di noi, da vecchietto, sarà quello che è stato in vita; la parabola del "si raccoglie ciò che si è seminato". Scorsese, inoltre, ha scelto di raccontare le diverse decadi facendo recitare gli stessi attori (tutti over settanta); per questo ha ingaggiato l'Industrial Light & Magic per ringiovanire i volti con una CGI, che, anche se sorprende, rischia di plastificarne le espressioni facciali, indebolendo la recitazione.
The Irishman è un prodotto concepito per lo streaming, ma non per questo meno potente sul grande schermo; oggi fare un film richiede più investimento e quindi più rischio: ecco che Scorsese ha scelto una via di mezzo, che gli ha permesso di dare ampio spazio alla sua ormai nota creatività.
Possiamo dire, senza ombra di dubbio, che Martin Scorsese s'aggiudica assieme a Coppola, Leone, Rosi, De Palma e Ferrara, il titolo di antropologo della cultura WOP e WASP. Scorsese è un geniaccio che, nel suo humus cinematografico, ci ha messo rock 'n roll, blues, jazz, metacinema, storia del cinema, cronaca, varietà e comicità dissacrante.
The Irishman è l'antistreaming o cinema nello streaming (scegliete quello che più v'aggrada) capace di fondere masscult e midcult in un mondo spietato in cui l'uomo è un lupo per l'uomo.

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