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Il Processo ai Chicago 7: i sette samurai della libertà

È difficile che Netflix ci offra prodotti di qualità, però certe volte ci regala qualche perla, come Il Processo ai Chicago 7; scritto e diretto da Aaron Sorkin, il top degli sceneggiatori d’America, che ha firmato lo script di The Social Network e ha creato serie tv come The Newsroom.

Siamo nel settembre del 1969 e “i sette” sono i seguenti: Tom Hayden (Eddie Redmayne), Jerry Rubin (Jeremy Strong), Rennie Davis (Alex Sharp), David Dellinger (John Carroll Lynch) Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen, qui nomination come miglior attore non protagonista), John Froines (Danny Flaherty) e Lee Weiner (Noah Robbins). Poi, in aggiunta al processo, il cofondatore delle Pantere Nere, Bobby Seale (Yahya Abdul – Mateen). Sono accusati di cospirazione e di aver provocato rivolte e tumulti alla convention nazionale democratica, dell’anno prima. La difesa “dei 7” è guidata dall’avvocato William Kunstler (Mark Rylance); mentre l’accusa, dal giovane legale Schultz (Joseph Gordon-Levitt), un uomo di sani principi e sempre ligio al dovere.

Il soggetto riflette il contesto reale degli eventi del 1968 e la “resistenza pacifista” contro la guerra in Vietnam. Il movimento, guidato dai sopracitati, fu in procinto di creare una clamorosa protesta sociale in difesa dei diritti umani; ma l’intenzione fu soppressa sul nascere dalla polizia e dai servizi segreti statunitensi.

Se non vi piacciono i processi, in cui si mastica la burolingua giuridica e dove ci si muove nelle risoluzioni di casi incresciosi, incastonando politica, società ed etica, il film non sarà di vostro gradimento. Il Processo ai Chicago 7 va contestualizzato al ‘68. Negli States e poi nel mondo, partirono proteste contro la guerra in Vietnam, da parte dei movimenti pacifisti e dei vari raduni contro il potere costituito per sostenere l’antimilitarismo, l’urlo alla legalizzazione delle droghe e alla libertà sessuale… la lotta al razzismo.

Benché tali temi secchino gli astanti meno interessati, essi non rimarranno comunque delusi per lo squadrone di attori in campo. Inoltre, Sorkin sa scrivere e, nonostante la staticità del film (il quale potrebbe benissimo diventare uno spettacolo teatrale), riesce a creare picchi emotivi con relativi gradi di tensione. Ad esempio, è forte l’odio che si prova per il giudice Julius Hoffman (Frank Langella), che si accanisce contro l’afroamericano Bobby Seale.

Il Processo ai Chicago 7 richiama un po’ le atmosfere de Il Buio Oltre La Siepe (1962) e L’Uomo della Pioggia (1997) di Francis Ford Coppola.

Sorkin tende a semplificare le visioni politiche, portandole a mere posizioni dualistiche: il potere e il contropotere. Questa vicenda c’insegna che lottare per i propri diritti e per la propria libertà è un imperativo e bisogna farlo in ogni momento di “sospensione dei diritti e delle libertà”. In più, spinge sulla psicologia dei personaggi e ci mette anche tanto umorismo, dando vita ad un prodotto di qualità e ricco d’intelligenza.

Dal punto di vista tecnico è girato in modo lineare, come le scene in aula di tribunale, con intervalli di flashback impreziositi dalla fotografia di Phedon Papamichael (Le Mans ‘66 – La Grande Sfida).

Il processo ai Chicago 7 dimostra di essere un film completo, che attinge dal giornalismo, dalle testimonianze di chi ha vissuto quel momento di contestazione; è un’opera alla stregua de Il Caso Spotlight. Senza sbilanciarci, ma con oggettività, possiamo dire che un film con un cast del genere e una sceneggiatura così meriterebbe più di una statuetta.




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