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G. I. Joe - Snake Eyes: un giocattolo d'azione

Henry Golding (nel film Snake Eyes) forse non crede molto nella recitazione. Snake Eyes: G. I. Joe - Le origini (2021) è uno spin-off di G. I. Joe - La nascita dei Cobra (2009); la saga s'ispira alla nota linea di giocattoli creata dalla statunitense Hasbro. Torniamo a Golding... possiamo dire ch'è tale e quale ad un giocattolo di plastica: è rigido, anche nella lotta corpo a corpo, e ha un portamento da sacco di patate. Non è certo il massimo per un personaggio d'azione, in cui l'unica posta in gioco è o vivere o morire.

"Snake Eyes", nel complesso, è molto meglio del precedente, diretto da Stephen Sommers. Qui, invece, dietro la macchina da presa troviamo il tedesco Robert Schwentke, che sembra prediligere le atmosfere notturne e le fotoluminescenze metropolitane di Tokio. Notevoli i movimenti di macchina e i dolly nei vicoli stretti stretti della capitale nipponica, tra ninja e sicari yakuza che s'azzuffano e s'infilzano a fendenti di katana. Bene pure le raffinate ricostruzioni scenografiche delle domus giapponesi con i giardini di aceri, bambù, ginepri, bonsai, il parquet e i varchi scorrevoli. 

La narrazione è pedestre; Snake è un ragazzino quando vede morire il padre per mano di certi sicari. Una volta adulto si fa le ossa tra lotte clandestine e lavori di porto, finché non viene assoldato da una spia giapponese (l'attore Andrew Koji, molto più credibile e bravo di Golding). A questo punto si dipana una storia a livelli, in cui il nostro "eroe giocattolo" dovrà completare tre prove mortali per diventare un "Joe". Ecco che la pellicola inizia a farsi interessante. Subentra il ninjutsu, quello insegnato dai maestri, qui in veste di Blind Master e Hard Master (rispettivamente Peter Mensah e Iko Uwais).

Un pizzico di zen, combattimenti all'arma bianca, katane e catene, inseguimenti con motociclette superveloci. I combattimenti, presi singolarmente, sono appetibili e mantengono a lungo l'attenzione. L'azione poteva essere distribuita meglio, anche se non manca. Meno i dialoghi e lo script da terza elementare; mentre la fotografia "alla Blade Runner" di Bojan Bazelli aggiunge colore e "sintomatico mistero" ad un film dalla memoria breve. 

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