Passa ai contenuti principali

The Last Duel, una giostra di emozioni

Non servono preamboli o presentazioni quando parliamo di Ridley Scott; chi segue il cinema come passatempo lo associa spesso a Il Gladiatore, film con cui vinse l'Oscar, ma il regista nato a South Shields ha diretto anche il bellissimo e forse incompreso Kingdom of Heaven - Le Crociate, oltre ad aver lasciato un segno indelebile nello scenario fantascientifico con quel primissimo piano di un'iride, nell'immortale Blade Runner. Quest'ultima fatica The Last Duel, invece, è basata su eventi realmente accaduti verso la fine del 1300, in Francia. L'ambientazione è medievale, cavalleresca e corrisponde al periodo della Guerra dei Cent'anni tra il Regno di Francia e Il Regno d'Inghilterra: due nobili combattono in duello, fino alla morte, per rivendicare la virtù della moglie di uno dei due, la quale sostiene di essere stata stuprata dall'altro. Siamo in pieno medioevo, la donna non ha diritti, non ha voce, ma è ritenuta una contropartita per le spartizioni di contee o ducati e per dare eredi al suo proprietario (cioè il marito).
La narrazione ha un approccio piuttosto particolare, poiché è divisa in tre atti o versioni dei tre personaggi chiave. Scott traspone l'omonimo libro dello storico Eric Jager e ne decostruisce la struttura, rilevando gli aspetti più brutti della misoginia del tardo medioevo.

Siamo nel 1386, Sir Jean De Carrouges (un Matt Damon biondo con pizzetto e taglio di capelli mullet) un cavaliere con alle spalle anni di battaglie, un maestro d'armi, e Jacques Le Gris (un granitico Adam Driver) sono vassalli dello scriteriato Pierre d'Alencon (un Ben Affleck bravo quanto i primi due colleghi, ma anacronistico per l'atteggiamento che dà al suo personaggio). D'Alencon ha una forte simpatia per Le Gris; ne rimane colpito per il suo essere colto e dedito al libertinaggio. Soprattutto, a corte, condividono quest'ultimo aspetto. Un'amicizia che si rafforza e che allontana da loro il posato De Carrouges. Il quale, per provvedere alle sue proprietà, ha bisogno di un erede e decide di sposare la soave Marguerite (Jodie Comer, segnatevi questo nome!), figlia di un tenutario fedelissimo del re di Francia Carlo VI (il giovane interprete Alex Lawther). Il matrimonio tra Jean e Marguerite è freddo e non riescono a concepire. Intanto l'odio tra Jean e Jacques si fa sempre più grande e Le Gris approfitta di questo momento di debolezza per abusare sessualmente della signora De Carrouges. Quando Jean lo verrà a sapere, cercherà di manipolare il processo legale e portare la vicenda al giudizio di Dio: sarà un'ordalia, sarà un duello. Se Jean dovesse morire, le accuse della moglie nei confronti di Le Gris non sarebbero vere e Marguirite verrebbe arsa viva.

Un plauso va a Matt Damon e Ben Affleck (già sceneggiatori di Will Hunting - Genio Ribelle), i quali assieme a Nicole Holofcener, hanno scritto un dramma coinvolgente e, allo stesso tempo, pieno di ritmo; infatti, nonostante la ripetizione in tre versioni della vicenda, riusciamo a vedere, in maniera oggettiva, la sofferenza e il dolore di una donna dell'epoca. The Last Duel è un melodramma antropologico e serve, soprattutto oggi, a capire quali dinamiche spingano a usare la violenza contro le donne; se queste dinamiche siano soggettive o puramente ambientali, cioè delineate dal contesto socio-culturale in cui si vive.

Attorno a questa narrazione abile, c'è una resa filmica sorprendente: Scott riprende un duello al cardiopalma; la dinamica dei corpi, i suoni, il frastuono della lancia in resta che urta gli scudi. L'assordante stridìo delle armature. L'ansia di arrivare a quel verdetto di morte, intervallato dai sospiri di Marguerite ogni volta che il marito è ferito. 
La fotografia di Dariusz Wolski è criptica e gioca con le ombre, con le luci dei caminetti, delle candele, fondendo tonalità grigio scure con il verde smorto delle lande normanne.

The Last Duel è una giostra, nel vero senso del termine: un turbinio di sentimenti, tradimenti, passioni ed esplosioni di coraggio; un'opera eccellente, che s'aggrazia agli occhi dello spettatore.

Commenti

Post popolari in questo blog

Il Mezzogiorno in "crisi apparente"

Se nel periodo invernale si giocava sul problema della crisi e delle persone che non riuscivano ad arrivare a fine mese, adesso, durante l'estate ci si dimentica che in fin dei conti non stiamo poi così male. L'estate è il momento in cui tutti si concedono la vacanza e l'Italia di mete ambite ne ha non poche: la Sardegna, la Calabria, l'Emilia-Romagna e la Puglia. Ed è proprio quest'ultima che sta spopolando soprattutto nelle zone del basso Salento: Otranto, Santa Maria di Leuca e Gallipoli. I flussi turistici sono variegati, molti napoletani, romani, toscani, ma anche Veneti e Lombardi. Una meta calda, poi specialmente, in questo mese dove si son sfiorati anche i 40° gradi all'ombra, e dove si vive l'estate intensamente. La movida notturna non manca con le discoteche all'aperto più note del salento: Guendalina, Quartiere Latino, Rio Bo, Casablanca, ecc... I servizi di ristorazione sono buoni, anche i prezzi, insomma, divertirsi a costi bassi. L'

La Furia di un Uomo, la recensione

Jason Statham ha già collaborato con il regista Guy Ritchie, era nel cast di Lock, Stock and Two Smoking Barrels (1998), film rivelazione per entrambi. Ne La Furia di un Uomo (2021), su Prime Video dal 27 dicembre 2021, Ritchie dirige di nuovo Statham che veste i panni di "H", un ibrido tra un John McClane e un Bryan Mils di Io vi Troverò e che dispensa battute ermetiche e ossa rotte in quantità uguali. Detta così pare si tratti di un b-movie qualsiasi, ma, fortunatamente, non lo è. Guy Ritchie è un regista abile nel ricomporre sceneggiature lineari attraverso il montaggio disorganico e le riprese poliedriche. Alcuni suoi lavori sono azzeccati (gli Sherlock Holmes , The Gentlemen , Snatch ), altri un po' meno ( King Arthur , Aladdin e il remake/floppone Swept-Away ). Con La Furia di un Uomo Guy Ritchie, invece, si è mantenuto in bilico, raggiungendo un equilibrio tra action tradizionale e heist movie . La Furia di un Uomo, da quello che si legge in giro, è un remake

Oppenheimer: quando distruzione e resurrezione coincidono

È superfluo usare l’appellativo “bello” per definire il nuovo film di Cristopher Nolan, sarebbe più appropriato “sorprendente”. J. Robert Oppenheimer, conosciuto ai più come “il padre della bomba atomica”, racchiuse in sé un gigantesco scrupolo di coscienza, che qui è raccontato in tre ore tormentate. Benché Oppenheimer (2023) ripercorra la vita turbolenta del fisico americano, che ha contribuito prima allo studio astratto e dopo alla ricerca e sviluppo empirico della bomba atomica, resta, comunque, un dramma sulla coscienza di un genio che concepisce la sua creatura e che la porta alla conoscenza collettiva, divenendo “errore cosmico”: condannando uomini, donne e bambini a quelle sventure che furono Nagasaki e Hiroshima. La sceneggiatura è basata su “American Prometheus”, libro biografico scritto da Kai Bird e Martin J. Sherwin nel 2005. Oppenheimer divenne chief del “Progetto Manhattan” dal ‘42 al ‘46; egli si fece costruire un laboratorio nel deserto di Los Alamos, nel Nuovo Messic