Sarebbe ovvio sostenere che fare un film sul marchio di scarpe più famoso del mondo, sarebbe come fare pubblicità.
Ecco che qualcuno ha pensato bene di fare un film s’una scarpa. Ci sono stati già precedenti con The Founder (2015) nel quale si spiegava la genesi di McDonald’s oppure nell’originalissima serie tv Halt and Catch Fire (2014/2017) sulla nascita dei primi PC e delle società informatiche degli anni ottanta.
Anche se non vi piace il consumismo, l’ultimo film (nelle sale già dal 6 aprile 2023) sul marchio Nike, Inc. si chiama “Air - la storia del grande salto”, sì proprio come quelle là, le Nike “Air” Jordan. Il film è scritto da Alex Convery, Ben Affleck e Matt Damon (due che, quando scrivono assieme, non sbagliano un colpo dai tempi di Will Hunting – Genio ribelle). Inoltre, Affleck interpreta anche il ceo-fondatore e amministratore delegato Phil Knight. Ben Affleck fa un Mr. Knight stravagante, che veste tute anni ottanta colorate, guida una Porsche viola ed è un praticante dello zen marketing.
Air – la storia del grande salto possiamo definirlo un film sullo sport, ma anche sulle rivelazioni stocastiche. È un film eroico sul marketing.
La storia inizia nel 1984 e si apre con le note dei Dire Straits “Money for nothing”. Nike è un’azienda pressoché sconosciuta con un comparto azionario esiguo e costretta a competere con Converse e Adidas. Ed è qui che entra in scena Sonny Vaccaro (Matt Damon), che deve trovare delle stelle/promesse del basket alle quali appioppare, su misura, una scarpa identitaria, che risollevi il marchio dormiente.
La campagna pubblicitaria profilata da Nike per Vaccaro prevede l’ingaggio di almeno tre giocatori, ma Sonny non li trova. Ne trova uno soltanto: Michael Jordan, il quale, all’epoca dei fatti, era una terza scelta sul parquet floor. Ma chi era Vaccaro? Un semplice dirigente d’azienda? Teoricamente sì ma, da grandissimo appassionato di basket quale era, aveva tutti i connotati di un osservatore sportivo. Vaccaro è un personaggio tenerissimo: qui vediamo un Damon sovrappeso, che gioca alle scommesse, vestito male e che indossa scomodi mocassini classici. Eppure è foriero, coraggioso e pronto a rischiare, tanto da usare metodi poco ortodossi per convincere, più che Michael Jordan, la "cazzutissima" madre del campione, la signora Deloris (una solida Viola Davis), che gestiva gli affari del figlio.
Ben Affleck è un regista, forse uno dei pochi, abile nel dare alle sue pellicole ritmi ascensionali, penso a The Town (2010) oppure al premiatissimo Argo (2012).
Perché, dunque, andare a vedere Air? Perché è un prodotto d’intrattenimento ma culturale, che fa associazioni con la psicologia del marketing, con la filosofia, lo sport e le mode. Diverte lo spettatore e c’è quella suspense nostalgica degli anni ottanta, che ricorda un po’ Risky Business (1983), di cui si sentono in sottofondo le note di “Love on a real train” dei Tangerine Dream. La pellicola è piena di rimandi semantici alla musica, al cinema, allo sport, all’economia.
Completano il cast il bravissimo Jason Bateman, perfino Chris Tucker che ritorna a divertire con la comicità iconica di quegli anni. Affleck e Damon, poi, sullo schermo sembrano gli stessi amici di sempre e quando li vedi recitare, ti scordi che lo stanno facendo. Però questo film è tutto per il compianto genio Peter Moore, il progettatore, lo shoe designer dei prototipi Nike, interpretato dallo sgraziatissimo e magnetico Mattew Maher, che ne fa un personaggio estemporaneo, che vive in un mondo tutto suo e che ha carta bianca per creare la scarpa immortale dal logo immortale.
No, non si tratta di feticismo; Air c’insegna che alcuni oggetti di consumo hanno la stessa gestazione di un quadro di Caravaggio e che le opere d’arte hanno anche bisogno di mecenati che credano nelle idee di chi le concepisce.
Perché l’arte è di crea, non certo di chi compra.
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