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Indiana Jones e Il Quadrante del Destino: ognuno ha il tempo che si merita

Non nascondo una sorta di commozione nell’aver visto il volto ringiovanito di Harrison Ford grazie alle innovative tecniche di De-Aging (un processo di utilizzo della CGI per far apparire una persona molto più giovane degli anni che ha); non perché questo Indiana Jones e Il Quadrante del Destino (2023) riservi soltanto questa novità, ma perché veder correre, oggi, Harrison “Indiana” Ford, classe ‘42, sul tetto di una carrozza di un treno nazista nel ‘39, mi ha, nostalgicamente, riportato al primo Indiana Jones del 1981 I Predatori dell’Arca Perduta.

In questo ultimo capitolo dell’archeologo-avventuriero più famoso del mondo, concepito dalla geniale coppia di menti Spielberg & Lucas, qui diretto dal cartesiano James Mangold (Quel Treno per Yuma, Le Mans ‘66 – La Grande Sfida), si riscopre tutto il chimerico di quest’eroe: le atmosfere esotiche, il Marocco, l’Italia, l’Europa minacciata dal nazismo, l’occulto, il mistero, il viaggio, la storia e l’archeologia, i climax scanditi dal tema musicale di John Williams, uno dei più famosi al mondo. E poi tanto, tanto humour.

Jones è ormai acciaccato e di là con gli anni; siamo nel ‘69 e gli U.S.A. sono narcotizzati dall’allunaggio e dai moti pacifisti contro la guerra in Vietnam. Ma Indiana Jones è chiamato ad un’ulteriore fatica dalla figlia (Phoebe Waller-Bridge) di un suo collega, il Dr. Shaw (Toby James), la rampante Helena, la quale lo trascinerà in giro per il mondo - e per il tempo - alla ricerca dell’ Antikythera, un antichissimo pezzo d’ingranaggi ideato da Archimede in persona.

Indiana Jones e Il Quadrante del Destino è un blockbuster di puro intrattenimento, girato con metodo e scritto con una scheletrica narrativa tipica degli anni ‘80/’90. Intrattenere il pubblico per quasi tre ore, oggi, non è un’impresa da pivelli; Mangold lo fece anche col lunghissimo Le Mans ‘66: nel suo modo di dirigere riesce a dosare il ritmo in maniera sinusoidale. Molti critici chiosano che i dialoghi sono puerili… poco importa, anzi ben venga un po’ di leggerezza. Perché Indiana Jones è questo: un estroso susseguirsi di considerazioni non impegnative, dove primeggia l’avventura.

Ritornano i temi cari all’eroe con cappello e frusta: la perenne lotta ai nazisti, qui incarnati dal Dr. Voller (uno strepitoso Mads Mikkelsen), che ricorda molto il malvagio Giudice Morton in Chi ha incastrato Roger Rabbit? E poi tanti salti temporali; perché questo capitolo è incentrato sul “tempo” e fa l’occhiolino a Zemeckis, il tempo che è inevitabile, che ci cambia e ci impone l’ineluttabilità della vita. La sceneggiatura è articolata e snoda tantissime trovate d'azione, sfruttandone le coreografie e le location suggestive del Marocco e della Sicilia. Va segnalata una sequenza stupenda nella quale Indiana Jones cavalca un mustango, correndo lungo i binari in metropolitana col treno alle calcagna; oppure quella della corsa in Tuk Tuk tra le stradine strette-strette di Tangeri, isterica e spassosa allo stesso tempo.

La durata potrebbe spaventare: 154 minuti, ma l’intrattenimento la rende tollerabile. Oggi, come non mai, il Cinema ha bisogno dello spettatore, che purtroppo è abituato alle durate frammentate delle serie televisive. Il Cinema ha bisogno della pazienza dello spettatore, perché questo è l’unico viatico per riempire le sale. Il “grande schermo” ha bisogno del coraggio e della fiducia degli adunati in sala, ha bisogno di raccontare avventure espandendo i confini della realtà.

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