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Oppenheimer: quando distruzione e resurrezione coincidono

È superfluo usare l’appellativo “bello” per definire il nuovo film di Cristopher Nolan, sarebbe più appropriato “sorprendente”. J. Robert Oppenheimer, conosciuto ai più come “il padre della bomba atomica”, racchiuse in sé un gigantesco scrupolo di coscienza, che qui è raccontato in tre ore tormentate. Benché Oppenheimer (2023) ripercorra la vita turbolenta del fisico americano, che ha contribuito prima allo studio astratto e dopo alla ricerca e sviluppo empirico della bomba atomica, resta, comunque, un dramma sulla coscienza di un genio che concepisce la sua creatura e che la porta alla conoscenza collettiva, divenendo “errore cosmico”: condannando uomini, donne e bambini a quelle sventure che furono Nagasaki e Hiroshima.

La sceneggiatura è basata su “American Prometheus”, libro biografico scritto da Kai Bird e Martin J. Sherwin nel 2005.

Oppenheimer divenne chief del “Progetto Manhattan” dal ‘42 al ‘46; egli si fece costruire un laboratorio nel deserto di Los Alamos, nel Nuovo Messico, in cui lui ed altri fisici di talento s’interrogarono su come sfruttare le reazioni nucleari poi usate come deterrenti bellici.

Nolan ci tiene a soffermarsi a lungo sull’ideazione materiale dell’ordigno e in particolare sul “Trinity Test”. Quella del Trinity è una sequenza talmente ansiogena da togliere il respiro e, allo stesso tempo, affascinante e spaventosa.

Il senso etico di Nolan (chiamiamolo pudore!) sta nel non mostrare le immagini delle conseguenze sull’uomo delle esplosioni nucleari, ma di farle immaginare allo spettatore; anzi: cosa ancora più sorprendente, è fartele materializzare attraverso gli occhi di Oppenheimer. Non è casuale, infatti, che Nolan abbia scritto la sceneggiatura usando la prima persona singolare, come una sorta di diario e/o flusso di coscienza.

È una pellicola tecnicamente impeccabile, girata con telecamere Imax a 65mm, per dare una definizione maggiore ai fotogrammi impressi, per dare più enfasi ai campi lunghi e alle panoramiche. Inoltre, ci sono sezioni girate in bianco e nero, che analizzano i dossier del “processo farsa” fatto ad Oppenheimer successivamente allo “sgancio” degli ordigni nucleari nel Pacifico. L’uso del bianco e nero ha una funzione di narrazione oggettiva. Un b/n che sa di Good Night, and Good Luck (2005), di Che – L’Argentino (2008) o de Il Dottor Stranamore (1964). Nolan ha usato la desaturazione del colore per raccontare le sottotrame di Lewis Strauss, politico e presidente della Commissione per l’Energia Atomica degli U.S.A.

Oppenheimer è la storia di un genio, la cui insoddisfazione più grande è quella di non aver lasciato incompiuta la sua scoperta. È un film sulla “detonazione inutile”; sull’inutilità per come la intendeva Eugenio Montale: - Nel mondo c’è un largo spazio per l’inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi – ed è proprio in questo nonsense che si colloca il Secondo Conflitto Mondiale e tutte le altre guerre che sono venute. È così che Nolan cerca, servendosi del passato, di raccontare il presente.

Nolan ha fatto un film sulla pace, perché ha avuto tatto nel non mostrare e/o glorificare immagini di guerra. Truffaut sosteneva che i film bellici anche quelli pacifisti sulla guerra, rendono la guerra attraente. Ma forse intendeva l’attrazione della “detonazione cinematografica”, che mostra come il bene soggettivato diventi il male quando si oggettiva.

La regia di Nolan predilige un montaggio dal ritmo ascensionale, grazie alle partiture ipnotiche di Ludwig Goransson e alla fotografia geometrica di Hoyte Van Hoytema.

Cast che va da Cillian Murphy/Oppenheimer (davvero toccante) a R. Downey Jr/Lewis Strauss (iconico), entrambi bravissimi, mimetici; e poi Emily Blunt, Matt Damon, Gary Oldman… che dire… una resurrezione visiva!



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