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Io Capitano: Seydou e l’Odissea di milioni di anime

Io Capitano [2023]
di Matteo Garrone è un film che sceglie il percorso inverso, non nel senso del tragitto, bensì nel senso della perdizione.

L’Africa è stata ed è terra d’avventura, di safari, di caccia, di tribalismo, ma soprattutto di grandi migrazioni e di colonialismi latenti.

Matteo Garrone prende come approdo l’Europa, topos mitico per gli africani, tracciandone il viaggio/segmento di un adolescente senegalese e di suo cugino, da Dakar a Tripoli e dal porto libico all’Italia.

L’esperienza del viaggio di Seydou (Seydou Sarr) è lo stesso rodaggio afoso di milioni di uomini, donne e bambini, che migrano per la speranza di un futuro.

Io Capitano è un’epopea emotivamente coinvolgente per lo spettatore; il protagonista porta il nome di chi lo interpreta, il neofita Seydou Sarr, che qui ci offre una prova attoriale estremamente matura. Il ragazzo deciderà d’intrapredere il viaggio, all’insaputa della madre, col cugino Moussa (Moustapha Fall) dalla coloratissima Dakar, in Africa occidentale, attraversando migliaia di km, spazi naturali impervi come il deserto del Sahara prima e quello libico dopo, fino a Tripoli porto di partenza per la seconda epopea, quella in mare che porterà verso il “paese dei balocchi”: l’Italia.

La regia di Matteo Garrone porta lo spettatore con sé; lo prende per mano e lo accompagna durante tutta l’azione filmica. Garrone non ha bisogno di presentazioni e sono ben note le sue qualità nelle riprese d’assalto: è un cineasta che rifiuta la zona di comfort. Con Gomorra [2008] riuscì a far immergere lo spettatore nella fitta rete (il)logica del sistema camorristico moderno, della Napoli dissoluta, servendosi delle vite dei singoli personaggi in una narrazione ontologica intersecata alla Iñárritu.

Che Garrone prediliga uno stile quasi analogo ai suoi colleghi Cuarón, Iñárritu e Padilha è tangibile sia dalle inquadrature in terza persona alternate a soggettive intense, sia dal realismo magico con cui racconta “gli ultimi” nella crudezza della realtà, basti pensare al suo terzultimo film Dogman [2018], un horror pasoliniano.

Suggestiva la fotografia di Paolo Carnera, il quale gioca con le saturazioni e de-saturazioni dei colori (ipnotiche le scene nel deserto del Sahara!).

Un’opera di una bellezza visiva e narrativa così non si vedeva da tempo! Io Capitano non è stato doppiato, ma è sottotitolato e recitato il lingua wolof e questo per accentuare ancora di più l’effetto realtà.

La prima parte della pellicola ci racconta dei due adolescenti, dove vivono. Dakar è ritratta con colori molto accesi; e nel proseguo, quando i due cugini intraprendono il viaggio, i colori diventano sempre meno saturi. Nelle scene del Sahara il direttore della fotografia e Garrone giocano con la luce e con gli effetti di silhouette.

La narrativa è molto semplice, basata sulla parabola del viaggio dell’eroe, scritta da Garrone insieme a Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri e Massimo Gaudioso.

Il film riesce ad essere toccante, violento e liberatorio, ma anche emozionante come la scena dell’incontro nelle carceri libiche con “l’angelo custode” Martin (il bravissimo attore Issaka Sawadogo) che vede in Seydou un figlio da salvare.

Io Capitano è una pellicola di altissimo livello, lo dimostra il Leone d’Argento alla 80sima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e la prossima rappresentanza agli Oscar 2024.

Vincente o non vincente, Io Capitano è il ritorno di Garrone al “verismo cinematografico”, un atto dovuto in questi tempi di disumanizzazione politica e tecnologica.

I film di Matteo Garrone sono tutti antropologici perché s’interrogano sulla marginalità dell’uomo; infatti, in questo film, non è espresso alcun giudizio politico e il regista fa vedere l’essenziale.

L’odissea del migrante continuerebbe anche nel paese d’approdo, che si serve di centri di accoglienza e/o “comunità educative” gestite da imprese sociali collettive, che attuano metodi pavloviani poco ortodossi… ma qui ci sarebbe da fare un altro film!

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