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Ferrari. La recensione

Non c'è bisogno di essere dei cinefili per accorgersi che Ferrari [2023] non sembra un film girato da Michael Mann, ma è firmato dal maestro Michael Mann. Sì, proprio lui, il regista di Heat - La sfida, di Collateral, dell'epico L'Ultimo dei Mohicani.

Se è un film riuscito? No, anche se non mancano momenti di una certa suspense, specie nelle scene delle gare automobilistiche, nelle quali si riescono a percepire quelle inquadrature annesse all'abitacolo da lato cofano, dallo specchietto laterale o da lato bagagliaio, che tanto ricordano gli indrappelli della Ferrari Daytona Spyder 365 GTS/4 in Miami Vice - La serie, guidata da Sonny Crockett (Don Johnson).

Non si può tantomeno definirlo un biopic, poiché non racconta l'intera vita di Enzo Ferrari (un Adam Driver rattrappito sia nei movimenti, sia nella recitazione), ma s'incentra nell'anno 1957.

Si dice che raccontare la vita privata degli idoli sia deleterio, perché renderebbe l'idolo un semplice mortale con tutti i suoi aspetti miserabili, che qui si potevano tranquillamente evitare.

Da estimatore del maestro Mann, mi sarei aspettato più indaco, più scene girate durante il vespro; la sua innata sperimentazione con quelle inquadrature d'ispirazione melvilliana. Penso a Nemico Pubblico [2009] con Johnny Deep che, pur essendo un film in costume, ambientato nella Grande Depressione degli anni '30, è stato girato in digitale per avvicinare un pubblico aitante ad una concezione di reportage storico prima che ad un gangster-movie.

Per lo scrivente Mann resta e resterà un empirico al pari di Brian De Palma, ma può accadere che, arrivati in tarda età, si allenti la presa.

In Ferrari [2023] non c'è spazio per un racconto oggettivo di quegli anni, è uno spaccato di vita privata giudicante dal punto di vista di un americano (Mann), che poco sa delle tradizioni, degli usi e costumi italiani.

Il fondatore di casa Maranello ci viene descritto alle prese con una instabilità aziendale già da dieci anni, abbattuto dalla morte dell'unico erede maschio (causa questa di separazione dalla moglie - una Penelope Cruz da telenovela - che detiene il patrimonio dell'azienda) e poi la relazione extraconiugale con l'amante (una brava Woodley Shailene) dalla quale avrà un figlio adulterino.

Dal lato tecnico, quindi, le scene di corsa sono, sì, ottime nel mostrare i crash, il realismo del ruggito dei motori dell'epoca o il senso di velocità, però Mann finisce per sprecare quel momento della Mille Miglia, che si sarebbe potuto raccontare con più audacia e, invece, nel film è ridotto a mero segmento da fiction televisivo. Per non parlare poi del folklore italiano stereotipato, che lo fa sembrare un mafia-movie di serie B.

Purtroppo Ferrari ci lascia una sensazione di "vuoto culturale" e ci dà il colpo di grazia con un finale irresoluto.

Come si suol dire: scurdammoce 'o passato... "Cameriere?! Un flute di Ferrari brut, grazie, ch'è meglio!".

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